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LA MORTE E LA FANCIULLA
(DEATH AND THE MAIDEN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 giugno 1995
 
di Roman Polanski, con Sigourney Weaver, Ben Kingsley, Stuart Wilson (Francia - Gran Bretagna, 1994)
 
L'ultima faccia di quella pietra comunque preziosa che è il cinema polanskiano si costruisce su due aspetti tipici: l'innovazione e la costante.

Innovativa (come lo era l'assurdità de IL COLTELLO NELL'ACQUA, la tensione di CUL DE SAC, la devianza di REPULSION, la parodia de IL BALLO DEI VAMPIRI, il terrore di ROSEMARY'S BABY, l'ambiguità di CHINATOWN, l'affresco di TESS, il suspense espressionistico di FRANTIC) perché per la prima volta costringe il regista ad interessarsi direttamente dell'attualità e della politica. Ispirato da un lavoro teatrale del drammaturgo cileno Ariel Dorfman il film, e la splendida fotografia allusiva di Tonino Delli Colli si aprono così sulle onde schiumeggianti di un mare in burrasca: "in un Paese dell'America latina", in un bungalow isolato sopra le scogliere dove vive, reclusa ed impaurita, una ex-militante dell'opposizione. Con lei il marito, uomo politico a suo tempo perseguitato dal regime scomparso, ora incaricato di giudicare coloro che si macchiarono dei crimini orrendi della repressione: in una notte tempestosa, questi viene riaccompagnato a casa da un sconosciuto, nel quale la donna crede di riconoscere l'aguzzino che l'aveva torturata e violentata...

Costante, LA MORTE E LA FANCIULLA lo è per il rinnovato, sensibilissimo riavvicinamento a quelle caratteristiche che hanno da sempre segnato il cinema di Polanski: l'esigenza claustrofobica di racchiudere l' avvenimento in una geometria spaziale ben definita, l'osservazione macroscopica e fisica della materia che conduce all'astrazione ed al fantastico. E la doppia natura del cinema di Polanski. Quella del cineasta moderno, nutrito in cineteca, sensibile ai riferimenti culturali del proprio mestiere: ecco allora la profondità di campo tipicamente hitchcockiana, il soggetto ripreso nitidamente in primo piano e, sullo sfondo altrettanto a fuoco, l'oggetto della sua attenzione. Così che l'azione, i risvolti psicologici possano progredire con chiarezza, sul filo di una grammatica che spiega, impeccabile come poche altre, l'accaduto. Al tempo stesso, come flash rivelatori, i tagli insoliti dell'immagine: dal basso all'alto, di sbieco, su elementi stranianti, apparentemente superflui, comunque inquietanti. È l'altro aspetto del regista polacco, la sua tendenza verso l'ambiguo, il fantastico, il deviante, il crudele, il ludico e l'erotico.

Occorre aver visto Sigourney Weaver aggirarsi inquieta negli spazi sempre più soffocanti della propria abitazione, la cinepresa costringerla sempre più dappresso, scrutarla nelle pieghe amare de viso, nelle vesti bagnate dalla pioggia, gli oggetti (un pollo squartato, i resti del pasto frugati nella spazzatura) assumere il peso di altri significati, i suoni invadere progressivamente uno spazio vieppiù mentale per rendersi conto dell'importanza che può assumere lo sguardo di un regista. Bisogna averla osservata appiccicarsi a sua volta al suo presunto torturatore (grande, ambivalente Ben Kingsley, che recita al tempo stesso due personaggi: l'innocente ed il colpevole) per tentare di ritrovarne gli umori più disperatamente intimi, l'odore del sangue, lo strappo dei lacci, le mutandine cacciate in bocca in una sequenza ormai cult, per accorgersi della forza specificatamente cinematografica di un intervento. Che nasce sempre da una insopprimibile facilità, evidente felicità del filmare: uno spazio da riempire, certo, ma anche una storia, e la sua evoluzione.

Che questa non funzioni appieno, è possibile: certi rapporti fra i personaggi scanditi dai dialoghi, certi tempi suggeriti dalla sceneggiatura non vivono della medesima, folgorante lucidità di una regia che scolpisce nella memoria. Ma il film non è - come si limitava ad essere la pièce teatrale - un banale suspense sul tema della colpevolezza. In un finale della versione cinematografica che non vi riveleremo di certo, LA MORTE E LA FANCIULLA trova ancora la forza di affrontare altre lande, quelle più elevate del racconto filosofico: mutandosi in una riflessione sui temi della giustizia e della vendetta, dei rapporti fra vittima e carnefice, sull'impossibilità di dimenticare, o addirittura sull'esigenza per questo di dover convivere con il Male.


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